lunedì 12 novembre 2012

Tra simbolismo religioso e innovazioni pre-rinascimentali: Carlo Crivelli e la Madonna della Passione


La Madonna della Passione è un'opera fondamentale per conoscere la prima attività del pittore, poichè è ricca di elementi donatelliani, lippeschi e squarcioneschi, appresi nella sua esperienza di bottega.
Il critico Amico Ricci la ricorda a Venezia e secondo lui quest'opera proveniva dal monastero di San Lorenzo, in seguito passò alla raccolta padovana Barbini-Baganze, poi a Verona, a Pompei ed infine a Castelvecchio.
Parlando della datazione è difficile stabilirla con precisione: si ipotizza che sia intorno al decennio 1450-60.La tecnica è naturalmente pittorica, le cui dimensioni sono 71 x 48 cm, mentre il soggetto è di sfondo religioso-allegorico.
In basso a destra c'è la firma dell'artista, scritta in latino e in lettere capitali classiche: "OPUS KAROLI CRIVELLI VENETI".
L'immagine è costituita da diversi piani prospettici: nel primo troviamo tre angeli con i misteri della passione, tra i quali spiccano la croce e la corona di spine.
Sullo stesso livello, appoggiata al davanzale marmoreo si alza una colonna dal capitello ionico. Nei suoi dintorni vi sono figure umane e sul capitello troviamo un gallo.
Al centro dello stesso piano è raffigurata un'interessante immagine sacra di Maria e Gesù, poichè risulta che le mani giunte della Madonna e il cuscino nero dove il Bambino è in piedi sono in primo piano, mentre il resto dei corpi della Vergine e del Redentore, il festone di frutta decorativo e i putti musicanti in alto in secondo livello.
Lo sfondo sotto un'architettura voltata a botte si compone del tradizionale scorcio rinascimentale, raffigurato con la tecnica del trompe-l'oeil: in quello di sinistra troviamo un muro che probabilmente separa la scena centrale da un ipotetico paradiso terrestre, poichè spuntano tra i mattoni delle erbe e dei fiori.In quello di destra è raffigurato il Golgota con le sue tre croci, una Gerusalemme curiosamente gotica percorsa da personaggi orientali, allegorici alberi secchi e l'episodio di San Pietro mentre mozza l'orecchio al soldato.
Crivelli non si limita a delinearci un semplice ritratto della Madonna con il Bambino, ma vi unisce la grande simbologia allegorica della Passione, che ci invita alla preghiera.
Il monte sul quale si ergono le tre croci è allegoricamente il Golgota, così come l'albero secco con l'avvoltoio appollaiato e il bambino che cavalca il destriero bianco.Le croci hanno senza dubbio un significato religioso, ma indicano anche la primitiva prospettiva del Crivelli.
L'albero e l'uccello sono emblemi di crudeltà e morte, mentre il bambino a cavallo simboleggia maturità e incostanza.
Grande valore allegorico è trasmesso anche dai cardellini che si annidano nel festone di frutta e dalla colonna, il tutto circondato dall'importantissimo colore, scelto tra le più calde gradazioni.
Il Crivelli ci rappresenta il famoso uccellino che evoca il sangue di Cristo versato durante il suo calvario. La leggenda ci narra infatti che questo umile animaletto si sia avvicinato a Gesù durante la via Crucis, per ripulirlo dal sangue provocatogli dalla corona di spine: il cardellino si sporcò quindi il petto, rendendolo rosso per sempre.
Il festone di frutta, invece, ci trasmette un gusto che ci sconcerta e ci affascina, grazie alla sensibilità tardogotica nel riprodurre i minimi dettagli.  Tra le preferenze naturalistiche del Crivelli troviamo i cetrioli (simboleggianti la resurrezione di Cristo o il significato negativo della perdizione e del peccato), le mele (peccato originale e redenzione di Gesù), le melagrane (fertilità ed abbondanza), uva e foglie di alloro (gloria, vittoria e sapienza).
La colonna ionica , invece, rappresenta il collegamento tra la terra e il Cielo, così come la scala dietro e le alte torri gotiche dello sfondo di destra.L'uomo vuole ascendere verso Dio, verso l'infinito e soprattutto verso la salvezza.
Da notare è anche il gallo sopra la colonna: sicuramente è da collegare alla passione e all'apostolo Pietro, ma per rimanere pertinenti alla salvezza dell'uomo, si può identificare come lo stesso calvario del Signore e alla fede dei cristinani che vogliono, come lui, risorgere nel Paradiso di Dio.
I putti musicanti in alto, sempre allegoricamente collegabili alla Passione, appartengono alle innovazoni rinascimentali ed emulano gli affreschi del Mantegna. Seppur arricchendo le sue conoscenze con le avanguardie del tempo, Crivelli rimane ancora attaccato alla tradizione medievale: da una parte troviamo la classicità delle forme e una prospettiva abbozzata e molto intuitiva, dall'altro una linea lontana dalla realtà, l'eleganza delle texture, le dimensioni non reali dei personaggi sacri e l'assolutezza senza tempo dell'oro.
Il pittore è portato alle regole fisse e alla raffinatezza del gotico internazionale, mentre per origine è indirizzato all'arte bizantina veneziana. Come accennato in precedenza, le texture che caratterizzano i panneggi dei protagonisti sono molto raffinate e virtuose, così come i marmi policromi. Entrambi rimandano inoltre all'arte orientale, di stampo arabesco. Non a caso l'artista sceglie una linea fluida e un segno evidente, andamenti curvilinei e superfici uniformi.
Il colore è ancora carico di forte simbolismo ( come il rosso, rimando alla regalità e al sacrificio, il blu e l'oro alla spiritualità e alla regalità e il nero alla morte e sconfitta del Cristo).
Per la Madonna della Passione sceglie gradazioni calde e una luce intensa proveniente da sinistra. Il volume è reso grazie al chiaroscuro, alle gradazioni cromatiche e alla prospettiva primitiva, che aiuta a definire anche lo spazio, sebbene sia per lo più simbolico.
La struttura compositiva è simmetrica speculare, comportando un equilibrio tra la parte a sinistra e a destra. L'asse di simmetria passa attraverso il vaso di fiori in alto e il corpo di Maria.
Si può dire quindi che Crivelli in questa sua prima opera abbia preferito puntare sull'aspetto religioso-simbolico, poichè la tecnica risulta lineare e prova di troppe innovazioni pittoriche.
L'opera è in toto l'allegoria della passione di Gesù, ma anche della salvazione dell'uomo. Dopo le sofferenze e la morte, Cristo risorge nella gloria di Dio e così vale anche per l'uomo, il quale dopo una vita tentata dal peccato, muore nella speranza della salvezza e poi risorge nel Signore.
                                                                                                                                                                            -Federica

venerdì 5 ottobre 2012

La volta della Cappella Sistina



La volta della Cappella Sistina (critica integrata con commenti di Giorgio Vasari)

“Alla quale opera non pensi mai scultore né artefice raro potere aggiugnere di disegno, né di grazia, né con fatica poter mai di finitezza, pulitezza e di straforare il marmo tanto con arte, quanto Michele Agnolo vi fece, perché si scorge in quella tutto il valore et il potere dell'arte.” 
 La Cappella Sistina è senza dubbio uno dei più grandi tesori culturali di tutti i tempi. La sua grandezza, non soltanto superficiale, lascia senza fiato anche il visitatore più inesperto. Dedicata a Maria Assunta in Cielo, si trova inserita all’interno del percorso dei Musei Vaticani, nello stato Città del Vaticano. Fu costruita tra il 1475 e il 1481, all'epoca di papa Sisto IV della Rovere, da cui prese il nome. Tutto il mondo la conosce come luogo nel quale si tengono il conclave e altre cerimonie ufficiali del Papa (in passato anche alcune incoronazioni papali), ma soprattutto come uno dei capolavori d’arte più conosciuti e importanti nella tradizione artistica occidentale. I suoi affreschi vennero eseguiti dal celebre Michelangelo Buonarroti, che si occupò della volta (1508-1512) e della parete di fondo (Giudizio Universale, 1535-1541).La personalità dell’artista era senza dubbio forte e decisa, tanto che dalle sue pitture traspaiono la sua creatività e la sua bravura, tanto che il Vasari lo inserirà nel libro delle sue Vite come unico artista ancora in vita e lo soprannominerà “divino”.
Questa pagina critica è atta a sottolineare dei caratteri fondamentali che distinguono Michelangelo dagli altri artisti suoi contemporanei, ma soprattutto a fare una critica sulla meravigliosa opera d’arte che tutto il mondo ci invidia.
Protagonista e accompagnatore del viaggio nei Palazzi Vaticani sarà senza dubbio Giorgio Vasari, importantissimo storico dell’arte che ci restituisce attraverso il suo scritto, molti dettagli e aneddoti sulla realizzazione dell’immenso affresco, nonché sulla forte personalità dell’esecutore.
Il Vasari lo ritrae così nelle Vite: “sdegnato e con collera gli rispose: “Va' al bordello tu e 'l Cossa, che siete due solennissimi goffi nell'arte”. “Per il che volti a Michele Agnolo gli dissero che l'aveva fatta in attitudine sí minacciosa, che pareva che desse loro la maledizzione, e non la benedizzione. Onde Michele Agnolo ridendo rispose: “Per la maledizzione è fatta”.
Caratterizzato dunque da grande determinazione e irruenza, Michele Agnolo fu ricoperto di doni e di favori dall’ambizioso papa Giulio II che voleva portare Roma agli antichi splendori. Il pontefice chiese all’artista di interrompere il suo monumento funebre e di intraprendere la realizzazione dell’immenso affresco nella Sistina. Michelangelo reagì di malo modo, respingendo il committente e rifiutando l’incarico, anche se persuaso dalla curia romana accettò l’incarico. Così si iniziarono i lavori di quella che oggi è la più grande testimonianza della bravura dei nostri artisti italiani.
Del progetto iniziale ci rimangono due disegni, che prevedevano le figure di sei apostoli seduti entro nicchie nei pennacchi e una partitura di finte architetture nella volta. Una volta preparati tutti i ponteggi l’artista volle cambiare il soggetto, o meglio, interpretarlo a modo suo e ampliare il programma iconografico. Ci fu una grande discussione tra Michele Agnolo e Giulio II, ma alla fine prevalse l’artista con i suoi desideri. I 500 metri quadri della Cappella Sistina erano pronti per essere affrescati.
“Laonde il suggetto della cosa lo spinse andare tanto alto per la fama e per la salute dell'arte, che cominciò i cartoni a quella e, volendola colorire a fresco e non avendo fatto piú, fece venire da Fiorenza alcuni amici suoi pittori, perché a tal cosa gli porgessero aiuto et ancora per vedere il modo del lavorare a fresco da loro, nel quale v'erano alcuni pratichi molto […] e, dato principio all'opera, fece loro cominciare alcune cose per saggio. Ma veduto le fatiche loro molto lontane da 'l desiderio suo e non sodisfacendogli, una mattina si risolse di gettare a terra ogni cosa che avevano fatto. E rinchiusosi nella cappella non volse mai aprir loro, né manco in casa, dove era, da essi si lasciò vedere. […] Laonde Michele Agnolo preso ordine di far da sé tutta quella opera, a bonissimo termine la ridusse con ogni sollecitudine di fatica e di studio; né mai si lasciava vedere per non dare cagione che tal cosa s'avesse mostrare; onde ne gli animi delle genti nasceva ogni dí maggior desiderio di vederla.“
Racconta così il Vasari di ciò che accadde durante l’esecuzione dell’opera. Michelangelo, insoddisfatto, cacciò via tutti i suoi collaboratori e si rinchiuse nella Cappella Sistina senza voler nessuno e senza che entrasse anima viva. Il papa volle a tutti costi sbirciare per vedere come proseguivano i lavori e Vasari ricorda questo aneddoto: “Il papa, andato per entrar nella cappella, fu il primo che la testa ponesse dentro, et appena ebbe fatto un passo, che da l'ultimo ponte su 'l primo palco cominciò Michele Agnolo a gettar tavole. Per il che il papa vedutolo e, sapendo la natura sua, con non meno collera che paura, si mise in fuga minacciandolo molto.”
Ancora una volta abbiamo la dimostrazione della personalità difficile dell’artista, che nonostante zuffe e litigi con il pontefice, riuscì in soli 4 anni a completare da solo tutta l’immenso spazio. Alla fine dei lavori, Vasari ci ritrae un Michele Agnolo con gravi danni alla vista e con un’artrosi al livello del collo, causata dalle scomode posizioni in cui era solito dipingere.  “ Michele Agnolo preso ordine di far da sé tutta quella opera, a bonissimo termine la ridusse con ogni sollecitudine di fatica e di studio”. Lo stesso scrittore esalta la grande “facilità esecutiva” dell’artista, che aveva abbandonato ormai da tempo gli schemi preparatori e disegnava a mano libera gigantesche figure. Dalla tanta ammirazione gli attribuì il soprannome “divino”.
Soffermandoci ora su quella che è la vera e propria critica dell’opera d’arte, preferisco iniziare riportando subito le parole del Vasari, che ci restituisce un giudizio sull’affresco: “La quale opera è veramente stata la lucerna che ha fatto tanto giovamento e lume all'arte della pittura, che ha bastato a illuminare il mondo per tante centinaia d'anni in tenebre stato. E nel vero non curi piú chi è pittore di vedere novità et invenzioni di attitudini, abbigliamenti addosso a figure, modi nuovi d'aria e terribilità di cose variamente dipinte, perché tutta quella perfezzione che si può dare a cosa che in tal magisterio si faccia a questa ha dato. Ma stupisca ora ogni uomo che in quella sa scorgere la bontà delle figure, la perfezzione de gli scorti, la stupendissima rotondità de i contorni, che hanno in sé grazia e sveltezza, girati con quella bella proporzione che ne i belli ignudi si vede.”
 Senza alcun dubbio Vasari è completamente rapito da quello che si trova davanti: figure titaniche di ignudi si alternano ad architetture classicheggianti e finti stucchi, per restituirci un programma iconografico vastissimo e denso di significato. Ora, tutti abbiamo presente l’immagine della volta e per questo motivo ho deciso di concentrarmi su quella che è l’interpretazione personale dell’opera, piuttosto che fare un’analisi  prettamente descrittiva, poiché un capolavoro del genere, a mio avviso, non ha bisogno di essere tradotto in parole. Gli occhi da soli sanno saziarsi di quello che guardano.La caratteristica principale che mi viene all’occhio sono le dimensioni dei personaggi. Non a caso il Vasari stesso chiama le figure “titaniche”, come d’altronde fa nel Giudizio Universale. “Ne' quali per mostrar gli stremi e la perfezzione dell'arte, ve ne fece di tutte l'età, differenti d'aria e di forma, cosí nel viso come ne' lineamenti, di aver piú sveltezza e grossezza nelle membra, come ancora si può conoscere nelle bellissime attitudini”.
E’ impressionante vederle inserite in un complesso così grande, ma ancora più stupefacente è pensare come siano state realizzate: l’attenzione al dettaglio è maniacale, infatti Michelangelo compì numerosi studi anatomici prima di dilettarsi nella torsione dei corpi.Le anatomie sono perfette, ci troviamo davanti a delle vere e proprie sculture nella pittura. “figure bellissime et acutezze d'ingegno degne solamente d'esser fatte dalle divinissime mani di Micheleagnolo”.
I movimenti  del corpo anticipano addirittura il Manierismo, come la serpentina della “bellissima figura della Libica, la quale sta con una attitudine donnesca per levarsi in piedi, et in un medesimo tempo mostra volere alzarsi e serrare il libro: cosa difficilissima per non dire impossibile ad ogni altro ch'al suo maestro. “Altro personaggio importante dal punto di vista stilistico è il profeta Giona, che Vasari ci presenta così : “Ma chi non amirerà e non resterà smarrito veggendo la terribilità dell'Iona, ultima figura della cappella? Dove con la forza della arte la volta, che per natura viene innanzi girata dalla muraglia, sospinta dalla apparenza di quella figura che si piega indietro, apparisce diritta e vinta dall'arte del disegno, ombre e lumi, pare che veramente si pieghi indietro?” . Oltre alla possenza del suo corpo, Giona è importante  per il cangiantismo delle sue vesti. Il drappo verde assume sfumature rosse, rendendo anche quel semplice tessuto uno spettacolo tessile: la trama e l’ordito sembrano realizzati infatti con fili diversi. Anche le altre vesti delle sibille o dei profeti sono meravigliose: Michelangelo utilizzò delle cromie violente e contrastanti fra loro, come nel caso della Sibilla Delfica, in cui si accosta un verde acido ad un arancione luminoso. Per quegli anni fu una svolta e l’artista venne a lungo criticato per questo suo “azzardo”. Anche negli ultimi anni del nostro secolo ci fu un dibattito in seguito al restauro del 1989. Molti critici non credevano che Michelangelo avesse usato dei toni così accesi e cangianti nella sua pittura, ma comparandoli a quelli del Tondo Doni, tutti hanno dovuto tacere e riconoscere ancora una volta la genialità dell’artista rinascimentale.Vasari si sofferma in particolar modo sulla quarta scena della Sistina, ovvero la più importante: la creazione di Adamo.
“Nella creazione d'Adamo ha figurato Dio portato da un gruppo di angeli ignudi e di tenera età, i quali par che sostenghino non solo una figura, ma tutto il peso del mondo, apparente tale mediante la venerabilissima maestà di quello e la maniera del moto, nel quale con un braccio cigne alcuni putti, quasi che egli si sostenga e, con l'altro, porge la mano destra a uno Adamo, figurato di bellezza, di attitudine e di dintorni di qualità che e' par fatto di nuovo dal sommo e primo suo creatore, piú tosto che dal pennello o disegno d'uno uomo tale e tutto insomma con invenzione e giudizio miracoloso, onde, a chi distingue gli affetti loro, appariscano divini. “ Adamo ha un’anatomia perfetta, così come l’espressione dell’Onnipotente è rassicurante e piena d’amore. La creazione raggiunge il culmine nella realizzazione dell’uomo a immagine e somiglianza di Dio, con le stesse dimensioni e gli stessi tratti. Michelangelo, da uomo profondamente religioso, ha voluto mettere al centro le capacità umane e la fiducia umanistica, quindi la centralità dell’uomo nell’universo creato da Dio.L’artista, inoltre, ha celebrato la bellezza del corpo umano nudo nell’esempio di Adamo. Le sue proporzioni sono perfette, tutti i muscoli vibrano di energia e di potenza.  La scena più bella riguarda le mani che tendono l’una verso l’altra, ma non toccandosi. Esse simboleggiano infatti l’anelito costante dell’anima umana all’unione con Dio, non realizzabile nella vita terrena, oltre che alla creazione dell’uomo voluta dall’Altissimo per amore.Così come in Adamo traspare quindi tutta la filosofia neoplatonica cara a Michelangelo, cioè l’anima che anela a sciogliersi dai vincoli terreni, nella rappresentazione di Eva incontriamo una donna possente e dalla muscolatura importante. Per la prima volta anche la tanto aggraziata figura femminile assume delle caratteristiche particolarmente imponenti, tanto che la sua muscolatura è tanto sviluppata quanto quella del suo compagno. “nella madre nostra Eva si vede quegli ignudi l'un quasi morto per esser prigion del sonno, e l'altra divenuta viva e fatta vigilantissima per la benedizione di Dio.” 
Vasari utilizza pagine e pagine per la descrizione dei numerosi personaggi, ritenedoli capaci di far trasparire tutti i loro stati d’animo e pensieri, oltre che a lodarne l’estetica e il movimento. Di seguito riporto alcuni esempi di figure nelle vele e nei pennacchi.“Davit, con quella forza puerile che piú si può, nella vincita d'un gigante spiccandoli il collo, fa stupire alcune teste di soldati, che sono intorno al campo; come fanno ancora maravigliare altrui le bellissime attitudini che egli fece nella storia di Iudit […]Ma piú bella e piú divina di queste e di tutte l'altre ancora è la storia delle serpi di Mosè, nella quale storia vivamente si conosce la diversità delle morti che fanno coloro che privi sono d'ogni speranza per il morso di quelle. Dove si vede il veleno atrocissimo far di spasimo e di paura morire infiniti, senza il legare le gambe et avvolgere a le braccia coloro che rimasti in quell'attitudine ch'egli erano non si possono muovere; senza le bellissime teste che gridano et arrovesciate si disperano.[…] Similmente nell'altra, dove Assuero, essendo in letto, legge i suoi annali, son figure molto belle, e tra l'altre vi si veggono tre figure a una tavola, che mangiano, nelle quali rappresenta il consiglio che si fece di liberare il popolo ebreo e di appiccare Aman; la qual figura fu da lui in scorto straordinariamente condotta, avvenga che finse il tronco che regge, la persona di colui e quel braccio che viene inanzi non dipinti, ma vivi e rilevati in fuori, cosí con quella gamba che manda inanzi e simile parti che vanno dentro; figura certamente fra le difficili belle bellissima e difficilissima.” 
Le figure così tanto lodate, in seguito verranno coperte con i famosi “braghettoni” di Daniele da Volterra, in seguito alle critiche della generazione successiva travolta dalla Riforma.
Della Cappella Sistina si possono dire tante cose e si possono fare tante osservazioni, ma mai così esplicative come quelle che ci regalano le “tenebrose luci degli occhi”.
Percorrendo con lo sguardo tutta la volta ci si accorge di un’evoluzione stilistica dell’autore. L’esecuzione è iniziata dal fondo e quindi dalle ultime scene, l’Ebbrezza di Noè, il Diluvio Universale e il Sacrificio di Noè. Questi affreschi sono gremiti di personaggi dalle dimensioni ridotte ed è presente ancora l’ambientazione. Nelle scene successive, invece, le figure iniziano ad ingrandire e lo sfondo si evolve e scompare, come nel Peccato Originale, nella Cacciata dal Paradiso Terrestre e nella Creazione di Eva. Anche i gesti si semplificano e dopo una breve interruzione dei lavori dovuta a problemi economici, Michelangelo si rimise all’opera con un pensiero diverso ed evoluto. Ora si preferisce rappresentare i personaggi accentuandone l’essenzialità e la monumentalità, fino ad arrivare alla Creazione degli Astri e alla Separazione della luce dalle tenebre con figure che occupano l’intera scena e senza più nessun riferimento al paesaggio.
E’ importante sottolineare anche l’innovativa e ardita rappresentazione dell’Onnipotente di schiena, evidenziata dall’erculea anatomia e dalle vesti mosse dall’aria.“Né si può dire la diversità delle cose, come panni, arie di teste et infinità di capricci straordinari e nuovi e bellissimamente considerati. Dove non è cosa che con ingegno non sia messa in atto; e tutte le figure che vi sono sono di scorti bellissimi et artifiziosi, et ogni cosa che si ammira è lodatissima e divina".
 Concludendo la mia pagina di critica, non posso fare altro che lodare il celeberrimo artista e commentare con le parole dello storico d’arte:  “Ringraziate di ciò dunque il cielo e sforzatevi d'imitar Michele Agnolo in tutte le cose. Sentissi nel discoprirla correre tutto il mondo d'ogni parte, e questo bastò per fare rimanere le persone trasecolate e mutole”.
 E’ proprio così infatti che mi sento, riconoscermi piccola di fronte a questo enorme capolavoro. Entrare nella Cappella Sistina e alzare lo sguardo significa rimanere senza fiato. Tutto ciò che vi è raffigurato, dagli ignudi ai medaglioni con il simbolo di Giulio II, dai profeti ai nostri Antenati, tutto ci riguarda e ci tocca da vicino. Fa parte della nostra storia, della nostra cultura e del nostro patrimonio artistico, che tutto il mondo ci invidia.
"Però, come nel principio dissi, il Cielo per essempio nella vita, ne' costumi e nelle opere l'ha qua giú mandato, acciò che quegli che risguardano in lui, possino imitandolo, accostarsi per fama alla eternità del nome; e per l'opere e per lo studio, alla natura; e per la virtú al Cielo, nel medesimo modo che egli alla natura et al cielo ha di continuo fatto onore. E non si maravigli alcuno che io abbia qui descritta la vita di Michelagnolo vivendo egli ancora, perché non si aspettando che e' debbia morir già mai, mi è parso conveniente far questo poco ad onore di lui, che quando bene come tutti gli altri uomini abbandoni il corpo, non si troverrà però mai alla morte delle immortalissime opere sue: la fama delle quali mentre ch'e' dura il mondo, viverà sempre gloriosissima per le bocche de gli uomini e per le penne degli scrittori, mal grado della invidia et al dispetto della morte".

Federica Barcaglioni

La Pietà Rondanini


La Pietà Rondanini

La Pietà Rondanini è l'ultima opera di Michelangelo, difficilmente databile anche se di solito di riferisce agli anni 1560-64. Dalla testimonianza di Vasari emerge che l'autore lavorò alla scultura fino agli ultimi giorni della sua vita e che prima di iniziarla fece a pezzi un'altra scultura. Il cattivo stato del marmo provocò una crepa e di conseguenza dei problemi nell'atto dello scolpire, distruggento delle intere parti. Per questo motivo Michelangelo, preso da un impeto d'ira, prese a martellate la scultura. Non volle avvicinarsi al tema (a lui molto caro) della Pietà per i successivi due anni, dopo i quali si mise all'opera per la creazione della Pietà Rondanini.
La storia di questa scultura è senza dubbio lunga e ricca, dato che molti occhi hanno avuto il provilegio di ammirarla all'interno di palazzi signorili privati, prima di essere acquistata nel anni '50 dal comune di Milano e di essere esposta al pubblico.
Sappiamo della Pietà Rondanini grazie ad un documento-inventario che elenca i beni di Michelangelo rinvenuti nella sua casa dopo la morte. Da Firenze, la statua viaggiò a Roma e nel 1744 venne acquistata dai marchesi Rondanini, dai quali prese il nome. Venne posta all'interno di una nicchia della biblioteca di palazzo Rondanini in via del Corso a Roma. Nel 1904 venne riacquistata dal conte Sanseverino e annessa ad una base costruita su di un'ara funeraria di epoca traianea raffigurante i coniugi Marco Antonio e Giulia Filimena Asclepiade. Nel 1952 venne quindi acquistata dal comune di Milano,che la destinò alle raccolte civiche del castello Sforzesco, precisamente posta nella sala dello Scaglione.
La statua è alta 195 cm ed è in marmo. Il soggetto ritrae, come suggerisce lo stesso nome, la Pietà, caratterizzata da un grande senso di pathos e di mistero.
Cristo e Maria sembrano fondersi in una sla anima e in un solo corpo, trasmettendo allo spettatore un amore eterno. I loro corpi che emergono a fatica dalla scabrosità del marmo ci comunicano la sofferenza e la fatica che la Vergine impiega per sostenere il corpo morente del Figlio che, nel frattempo, si piega sulle gambe ferite.Proprio le gambe sono le protagoniste indiscusse della parte lavorata della stauta, anche se non raggiungono la perfezione e la levigatezza dell'opera vaticana. Altro rimando alla Pietà vaticana è rappresentato dalla giovinezza del volto di Maria, volutamente rappresentato fuori dalle coordinate temporali (Maria alla morte di Cristo non poteva essere ancora fanciulla, era cresciuta) per rendere allegoricamente la Trasfigurazione, quindi una Vergine consapevole del destino di suo Figlio.
Il non finito di quest'opera ha affascinato da sempre moltissimi critici a casua della sua difficile interpretazione. Grazie ad un recente restauro e alla precisione e alla meticolosità dei restauratori, sono emersi nuovi dettagli e particolarità legate ai ripensamenti esecutori dell'artista. Possiamo inoltre avere maggiore consapevolezza di quelle che sono le espressioni e gli stati d'animo dei ritratti grazie a sottili giochi di luce ed ombra.
Si scopre così la giovinezza di Maria in contrasto con delle macchie nere e incrostazione sulle gambe del Cristo, frutto probabilmente, di antiche manomissioni.
Sempre grazie al restauro, si sono scoperti dei sostegni in piombo tra la statua e l'ara traiana, in modo da sostenere il blocco senza intaccaro all'interno e quindi rovinarlo.
Altri dettagli appartengono alla mano stessa dell'artista come gli stessi segni sulle gambe di Cristo e altri sul braccio mutilo; addirittura sono presenti parti dove mancano le stoccature.
Sulla parte in basso corrispondende alla base, si nota la firma di Michelangelo.
Quest'opera di difficle analisi evoca in ognuno di noi differenti sensazioni e reazioni: tanto giuste quanto confutabili. Personalmente interpreto il non finito michelangiolesco come un cercare disperato di rispondere alle profonde domande dell'uomo rinascimentale, che si interrogava sul senso della vita e sulla sua anima (non dimentichiamoci che il XVI secolo fu attraversato da grandi riforme religiose come quella Protestante e quella Cattolica). 
La Pietà Rondanini va letta con il cuore e non con gli occhi. L'anima si sente imprigionata nel corpo terreno e cerca in ogni modo di liberarsene, così come l'uomo rinascimentale è confuso dai continui cambiamenti della sua società, in particolare un cattolico Michelangelo che soffre nel vedere la sua chiesa affetta dalla corruzione.Lo spirito quindi, anela ad elevarsi verso la santità e la pace interiore, staccandosi e gettando via tutto quello che rappresenta il male, la corruzione e la transitorierà della vita terrena.

Federica Barcaglioni

La Madonna della Passione




La Madonna della Passione

La Madonna della Passione è un'opera fondamentale per conoscere la prima atività del pittore, poichè è ricca di elementi donatelliani, lippeschi e squarcioneschi, appresi nella sua esperienza di bottega.
Il critico Amico Ricci la ricorda a Venezia e secondo lui quest'opera proveniva dal monastero di San Lorenzo, in seguito passò alla raccolta padovana Barbini-Baganze, poi a Verona, a Pompei ed infine a Castelvecchio.
Parlando della datazione è difficile stabilirla con precisione: si ipotizza che sia intorno al decennio 1450-60.La tecnica è naturalmente pittorica, le cui dimensioni sono 71 x 48 cm, mentre il soggetto è di sfondo religioso-allegorico.
In basso a destra c'è la firma dell'artista, scritta in latino e in lettere capitali classiche: "OPUS KAROLI CRIVELLI VENETI".
L'immagine è costituita da diversi piani prospettici: nel primo troviamo tre angeli con i misteri della passione, tra i quali spiccano la croce e la corona di spine.
Sullo stesso livello, appoggiata al davanzale marmoreo si alza una colonna dal capitello ionico. Nei suoi dintorni vi sono figure umane e sul capitello troviamo un gallo.
Al centro dello stesso piano è raffigurata un'interessante immagine sacra di Maria e Gesù, poichè risulta che le mani giunte della Madonna e il cuscino nero dove il Bambino è in piedi sono in primo piano, mentre il resto dei corpi della Vergine e del Redentore, il festone di frutta decorativo e i putti musicanti in alto in secondo livello.
Lo sfondo sotto un'architettura voltata a botte si compone del tradizionale scorcio rinascimentale, raffigurato con la tecnica del trompe-l'oeil: in quello di sinistra troviamo un muro che probabilmente separa la scena centrale da un ipotetico paradiso terrestre, poichè spuntano tra i mattoni delle erbe e dei fiori.In quello di destra è raffigurato il Golgota con le sue tre croci, una Gerusalemme curiosamente gotica percorsa da personaggi orientali, allegorici alberi secchi e l'episodio di San Pietro mentre mozza l'orecchio al soldato.
Crivelli non si limita a delinearci un semplice ritratto della Madonna con il Bambino, ma vi unisce la grande simbologia allegorica della Passione, che ci invita alla preghiera.
Il monte sul quale si ergono le tre croci è allegoricamente il Golgota, così come l'albero secco con l'avvoltoio appollaiato e il bambino che cavalca il destriero bianco.Le croci hanno senza dubbio un significato religioso, ma indicano anche la primitiva prospettiva del Crivelli.
L'albero e l'uccello sono emblemi di crudeltà e morte, mentre il bambino a cavallo simboleggia maturità e incostanza.
Grande valore allegorico è trasmesso anche dai cardellini che si annidano nel festone di frutta e dalla colonna, il tutto circondato dall'importantissimo colore, scelto tra le più calde gradazioni.
Il Crivelli ci rappresenta il famoso uccellino che evoca il sangue di Cristo versato durante il suo calvario. La leggenda ci narra infatti che questo umile animaletto si sia avvicinato a Gesù durante la via Crucis, per ripulirlo dal sangue provocatogli dalla corona di spine: il cardellino si sporcò quindi il petto, rendendolo rosso per sempre.
Il festone di frutta, invece, ci trasmette un gusto che ci sconcerta e ci affascina, grazie alla sensibilità tardogotica nel riprodurre i minimi dettagli.  Tra le preferenze naturalistiche del Crivelli troviamo i cetrioli (simboleggianti la resurrezione di Cristo o il significato negativo della perdizione e del peccato), le mele (peccato originale e redenzione di Gesù), le melagrane (fertilità ed abbondanza), uva e foglie di alloro (gloria, vittoria e sapienza).
La colonna ionica , invece, rappresenta il collegamento tra la terra e il Cielo, così come la scala dietro e le alte torri gotiche dello sfondo di destra.L'uomo vuole ascendere verso Dio, verso l'infinito e soprattutto verso la salvezza.
Da notare è anche il gallo sopra la colonna: sicuramente è da collegare alla passione e all'apostolo Pietro, ma per rimanere pertinenti alla salvezza dell'uomo, si può identificare come lo stesso calvario del Signore e alla fede dei cristinani che vogliono, come lui, risorgere nel Paradiso di Dio.
I putti musicanti in alto, sempre allegoricamente collegabili alla Passione, appartengono alle innovazoni rinascimentali ed emulano gli affreschi del Mantegna. Seppur arricchendo le sue conoscenze con le avanguardie del tempo, Crivelli rimane ancora attaccato alla tradizione medievale: da una parte troviamo la classicità delle forme e una prospettiva abbozzata e molto intuitiva, dall'altro una linea lontana dalla realtà, l'eleganza delle texture, le dimensioni non reali dei personaggi sacri e l'assolutezza senza tempo dell'oro.
Il pittore è portato alle regole fisse e alla raffinatezza del gotico internazionale, mentre per origine è indirizzato all'arte bizantina veneziana. Come accennato in precedenza, le texture che caratterizzano i panneggi dei protagonisti sono molto raffinate e virtuose, così come i marmi policromi. Entrambi rimandano inoltre all'arte orientale, di stampo arabesco. Non a caso l'artista sceglie una linea fluida e un segno evidente, andamenti curvilinei e superfici uniformi.
Il colore è ancora carico di forte simbolismo ( come il rosso, rimando alla regalità e al sacrificio, il blu e l'oro alla spiritualità e alla regalità e il nero alla morte e sconfitta del Cristo).
Per la Madonna della Passione sceglie gradazioni calde e una luce intensa proveniente da sinistra. Il volume è reso grazie al chiaroscuro, alle gradazioni cromatiche e alla prospettiva primitiva, che aiuta a definire anche lo spazio, sebbene sia per lo più simbolico.
La struttura compositiva è simmetrica speculare, comportando un equilibrio tra la parte a sinistra e a destra. L'asse di simmetria passa attraverso il vaso di fiori in alto e il corpo di Maria.
Si può dire quindi che Crivelli in questa sua prima opera abbia preferito puntare sull'aspetto religioso-simbolico, poichè la tecnica risulta lineare e prova di troppe innovazioni pittoriche.
L'opera è in toto l'allegoria della passione di Gesù, ma anche della salvazione dell'uomo. Dopo le sofferenze e la morte, Cristo risorge nella gloria di Dio e così vale anche per l'uomo, il quale dopo una vita tentata dal peccato, muore nella speranza della salvezza e poi risorge nel Signore per sempre.

Federica Barcaglioni

giovedì 27 settembre 2012

Amor vincit Omnia (Amore vincente)



L’Amore vince su tutto. Basta il titolo dell'opera a giustificare le fattezze di questo putto ridente, completamente nudo che rivolge lo sguardo beffardo verso il lettore. Caravaggio dipinse quest’opera tra il 1602 ed il 1603, su commissione del marchese Vincenzo Giustiniani, ricco banchiere genovese  che lo pagò ben 300 scudi. Oggi il prestigioso olio su tela (156 x 113 cm) è conservato al Staatliche Museen di Berlino. Divertente e un po’ sfacciato, questo dipinto rappresenta il dio Amore, completamente nudo, che rivolge allo spettatore un sorriso di vittoria e di sfida. La caratteristica luce radente illumina solo in parte il viso del protagonista, lasciando il lettore avvolto da un’aria di mistero e ambiguità.Dallo sfondo scuro emergono degli oggetti in primo piano: spartiti e strumenti musicali sono accostati ad un’armatura, così come il nascosto globo terrestre alla squadra e compasso. Questi oggetti alludono certamente alle varie arti, scienze e discipline che caratterizzavano il mondo seicentesco e delle quali numerosi pensatori hanno parlato e trattato. L’intento di Caravaggio è dimostrare al suo pubblico che l’Amore vince ed è superiore a qualsiasi cosa (come lo esplicita lo stesso titolo). Come in precedenti opere, l’artista scelse di dipingere i suoi personaggi partendo da modelli in carne ed ossa, come se fossero dei ritratti. Per questa tela posò il garzone preferito di Caravaggio, Cecco Boneri, col quale si dice che il pittore avesse una relazione. D'altro canto, i sostenitori dell'omosessualità di Caravaggio ritengono che, tramite il gesto della mano destra, il fanciullo “inviti” lo spettatore a raggiungerlo sul letto dove posa a gambe divaricate con aria provocatoria. Questa tesi può essere però smentita: Caravaggio era un grande ammiratore dell’arte michelangiolesca, secondo la quale con la posa a gambe sollevate o divaricate si alludeva alla resurrezione, alla vittoria e al trionfo (ci sono infatti delle somiglianze con i titanici personaggi della Sistina). Il quadro divenne subito, insieme al “Suonatore di liuto”, il dipinto più bello e più celebre della collezione Giustiniani, tant'è vero che Giovanni Baglione, rivale del Caravaggio, tentò inutilmente di dipingerne una copia.Riallacciandoci alla committenza, "Amor vincit omnia" doveva avere una posizione di privilegio all’interno della galleria pittorica dell’appassionato collezionista. Il marchese Giustiniani, che condivideva il palazzo con il fratello cardinale, aveva fatto collocare davanti all’opera una tenda verde: da una parte per un senso di pudore, dall'altra per riservare solo agli ospiti di riguardo il privilegio di osservare la tela. Non meno importante il motivo legato alla sorprendente vitalità dell'Amore vittorioso che potesse oscurare e rendere malinconiche tutti le altre opere della pur splendida raccolta. Queste accortezze non fecero che accrescere ulteriormente la celebrità della tela, ripetutamente imitata dai pittori e cantata dai poeti. Gli antichi inventari della collezione Giustiniani proposero addirittura un’ interpretazione dal senso etico: l’amore e la lussuria allontanano l’uomo dallo sviluppare le più elevate e degne qualità morali e intellettuali, distraendolo dai suoi obiettivi più profondi. Certo, difficile pensare a questa ipotesi se a realizzare il ritratto è il “maledetto” Caravaggio.

Federica Barcaglioni

Giuditta che taglia la testa ad Oloferne




Ricordata da Giovanni Baglione come opera dipinta da Caravaggio “per li signori Costi”, "Giuditta che taglia la testa a Oloferne” è unanimamente considerata uno dei massimi capolavori di Caravaggio.Il dipinto (olio su tela, 145 x 195 cm) venne realizzato nel 1599 ed è citato nel testamento di Ottavio Costa (1632), uno dei più grandi ammiratori di Caravaggio. Dopo quest’ultima apparizione, della tela non si sa più niente fino al 1951,quando l’allora proprietario Vincenzo Coppi la fece restaurare da Pico Cellini. Riconosciuta subito la mano del celeberrimo artista, l’opera venne fatta uscire allo scoperto attraverso una mostra sul Caravaggio curata da Roberto Longhi, presentatavi come un meraviglioso cammeo. Le vicende della tela in questi anni sono ancora parzialmente avvolte dal mistero: solo grazie alle scoperte di Costa Restagno e Terzaghi si è dichiarato che il dipinto rimase nelle mani dei Coppi fino al 1846, quando la Congregazione degli Operai della Divina Pietà la vendettero all’asta. L’opera venne acquistata da Antonio del Cinque Quintilli, il cui discendente Vincenzo Coppi la cedette allo Stato nel 1971. Oggi è conservata alla Galleria nazionale di arte antica di Roma.L’affascinante e seducente storia di Giuditta viene tratta dal libro dell’Antico Testamento che porta il nome dell’eroina. Questo libro è considerato come libro sacro dai cattolici e dagli ortodossi, mente apocrifo dagli ebrei e dai protestanti: proprio per questo motivo si pensa che la scelta del soggetto abbia un potente significato antiluterano. Nella Bibbia si narra di questa bellissima e ricca vedova, che viveva nella città assediata dal generale assiro Oloferne. Stanca di vedere il suo popolo morire di fame e di sete decide di smettere le umili vesti da vedova e indossa i suoi abiti più belli. Con il suo fascino riesce a sedurre il generale nemico e a decapitarlo, dopo essere stramazzato sul letto completamente ubriaco dopo un ricco banchetto.La Giuditta è senza dubbio un’opera cruenta e feroce, ma nonostante il suo impatto visivo rispetta molto fedelmente le descrizioni bibliche. Partendo ad esempio dall’acconciatura della protagonista, Caravaggio dimostra di conoscere approfonditamente le Sacre Scritture:  corrisponde infatti la frase “spartì i capelli del capo” con la rappresentazione della riga centrale della giovane. Lo stesso vale per gli orecchini, espressamente citati nei versetti sacri (abbiamo anche delle ipotesi avanzate nel corso degli anni da diversi critici che ci identificano gli orecchini di perla come dei gioielli appartenuti al committente del quadro). Sempre rapportandoci alla giovane eroina, è importante soffermarsi sulle sue labbra. Appena corrucciate e dischiuse sembrano sussurrare qualcosa, precisamente “Confirma me , Domine Deus Israel, in hac hora” , preghiera a Dio per darle la forza di continuare il suo gesto. Anche in questo caso si è ripreso chiaramente il passo della Bibbia.’ stato proposto che la bellissima modella che ha prestato le sue fattezze a Giuditta fosse in realtà proprio Beatrice Cenci ( decapitata l’11 settembre 1599), ma più probabile è l’ipotesi di Fillide Melandroni, una delle tante amanti prostitute di Caravaggio.Spostando l’attenzione su quella che è la “vittima” della scena è impossibile non notare la disperazione e la disumana espressione di Oloferne. Il gigante, steso sul letto è rappresentato nell’istante cruciale della vita di ogni uomo: Caravaggio è riuscito infatti a rendere il momento del trapasso tra la vita e la morte. Il tiranno non è più vivo, come dimostrano gli occhi rovesciati all’indietro, ma non è neanche morto, poiché le mani si aggrappano ancora disperatamente al lenzuolo, le membra sono contratte e la bocca ancora emette urli disperati. In seguito a recenti radiografie, è emerso che la testa era più attaccata al collo. Giuditta infatti dovette dare ben due colpi al nemico per staccargli totalmente il capo. Nel momento raffigurato non si è ancora adempito l’omicidio definitivo, tanto che Giuditta non solo tiene ferma la testa, ma la tira verso di sé come se volesse aiutarsi a staccarla. I suoi muscoli appena contratti denunciano una tensione mitigata da una forza immensa che viene da Dio. Caravaggio ha voluto così rappresentare due momenti precisi dell’evento: sia la prima sciabolata che il momento intermedio, servendosi solo di pochi centimetri in più sull’allargamento della ferita.I due soggetti sono in ampio contrasto fra loro: la delicatezza e i lineamenti puri della donna si mescolano in modo quasi gotico con l’aitante uomo atletico in preda alla disperazione e al dissanguamento.Il contrasto è evidenziato anche dalla vecchia ancella dietro Giuditta: la sua espressione corrugata e piena d’orrore è in netta differenza con la bellezza algida della giovane vedova. Anche nelle azioni le due donne differiscono: l’una è attiva e scattante pronta a recidere la testa del tiranno, mentre l’altra aspetta con una bisaccia aperta di raccogliere i resti dell’esecuzione. Caravaggio sceglie un clima feroce e tragico per la scena: le urla dell’ucciso, i colori forti sul rosso e gli schizzi di sangue che sgorgano copiosi dal collo stridono con l’appena pronunciata espressione della bocca di Giuditta.L’artista era solito partecipare alle decapitazione pubbliche per osservare come i condannati reagivano, le loro grida, le loro azioni e le loro espressioni di terrore, tanto che il tema della morte e della tragedia ricorre molto spesso nella sua produzione artistica (vedere Medusa degli Uffizi). Ne “La Giuditta che taglia la testa ad Oloferne” si tratta per la prima volta un soggetto drammatico, cruciale anche nell’iter compositivo e stilistico: si tratta infatti di una tela che rappresenta il momento di passaggio tra la pittura giovanile e quella naturalistica.Nella Giuditta Caravaggio si serve delle incisioni, che diventano fondamentali per le opere con i modelli dal vivo.  Alcuni critici hanno accostato all’opera altre interpretazioni oltre a quella biblica: ad esempio un possibile significato allegorico-morale, raffigurante la Chiesa Cattolica (Giuditta) che sconfigge l’eresia (Oloferne) o ancora la Virtù che vince il Male. La cosa che rimane da analizzare a livello compositivo è senza dubbio la luce, protagonista indiscussa dell’arte di Caravaggio.Nella tela l’atmosfera è surreale: la giovane donna è illuminata da un chiarore che ne risalta le caratteristiche fisiche e anche sensuali (il seno e le braccia), mentre allo stesso tempo lo sfondo scuro  e la penombra ci restituiscono un senso di costrizione, paura e terrore. L’artista gioca con i contrasti, rappresentando forse anche se stesso nelle vesti del carnefice/vittima. La scena è riempita solo a destra e a sinistra, mentre al centro della scena troviamo protagoniste le mani di Giuditta, come segni della volontà e della potenza divina che agiscono contro i mali morali delle eresie e del luteranesimo.Tirando le somme possiamo dire che Caravaggio è riuscito, senza alcun dubbio, non solo a rappresentare in maniera quasi letterale l’evento biblico, ma anche a conferire alla rappresentazione figurativa anche una profonda ed irruenta carica seduttiva e di fascino, le quali attirano ed incantano giorno dopo giorno sempre più persone.
Federica Barcaglioni